(Attenzione: se pensi che questi argomenti possano ferire la tua sensibilità, proteggiti e passa oltre.
Sono finalmente arrivate le medicine, non mutuabili: siccome ho avuto la diagnosi dopo i 18 anni, i farmaci me li pago. Con lo stesso farmacista ci siamo fatti un discorsone di come il sistema sia assurdo, ma qui sorvolo, almeno oggi. Sicuramente è un aspetto che voglio approfondire e voglio provare a cambiare il sistema ma prima devo studiarlo.
In questa fase di acquisto nessunə mi ha fatto sentire strana, tutte le persone sono state gentilissime: ho fatto tutto da sola, soprattutto quando ho dovuto dare il mio documento di identità al farmacista. Anche su questo aspetto ho molto da studiare prima di esprimermi.
Arrivata a casa ho letto tutto il bugiardino (giusto per farmi del male) e la mattina dopo ho guardato la scatola a lungo prima di decidermi: ho appoggiato la scatola sul tavolo e la guardavo mentre pucciavo la focaccia nel latte finto. Quanti pregiudizi interiorizzati ho senza sapere di averli? Tanti. Razionalmente so che è un percorso, supervisionato, che posso cambiare e sospendere se sentirò che non fa per me, ma tant’è… Alla fine mi sono decisa e scherzando ho inviato questo messaggio alla mia migliore amica ok mi sono drogata.
Lei sempre per scherzare mi ha risposto Se le parole hanno importanza… crediamo sia giusto usare il termine drogata?. Mi stava palesemente prendendo in giro perché ormai da anni ripeto ad ogni occasione che le parole creano identità e nell’ultimo post di questa serie ne riparlo, ma ovviamente poteva non partirmi una riflessione?
Quanto è sottile il modo in cui ci definiamo dal modo in cui ci definiscono le altre persone? E quanto si può auto ironizzare su qualcosa mentre da altrɜ è inaccettabile?
Credo non ci sia argomento più mainstream di questo, che moltɜ riducono al politically correct o più polemicamente al non si può più dire niente.
Personalmente credo che il limite sia molto sottile e si basi tutto sull’autodeterminazione delle persone ed anche sul consenso, due argomenti molto discussi e, a parer mio, molto fraintesi.
Porto il mio esempio per praticità nello scrivere.
Innanzitutto se io scherzo solo su me stessa posso dire un po’ quello che voglio, finché rimango nello scherzo. Se si trascende in una visione distorta è un altro paio di maniche: a questo punto se hai intorno una rete di supporto (parenti, amicɜ, specilistɜ) qualcunə ti farà notare che forse stai esagerando nel giudicarti. Se questa rete non c’è, è un problema (ne scriverò più dettagliatamente).
Se a definirmi in modo scherzoso è qualcunə intorno a me di questa rete c’è un consenso implicito e, nel caso di superamento di qualche limite, il rapporto è tale da poterne parlare.
Ad esempio, scherzando, il mio psichiatra al primo incontro, dopo che gli ho raccontato un aneddoto, mi ha guardato ridendo e mi ha detto tu sei tutta matta: per il rapporto che si è instaurato fin da subito io ho percepito quella frase come una battuta e un modo per creare fiducia.
Già da questi esempi è facile capire quanto è difficile questo argomento, quanto bisogna formarsi e come il non si può dire più nulla è solo una scusa per persone pigre che non hanno alcuna intenzione di andare un po’ al di là del loro naso.
E visto che cerco sempre di essere trasparente con chi mi legge, mi rendo conto che il limite tra l’autoironia e il giudicarmi è sottilissimo.
Riprendendo il discorso fatto all’inizio dei pregiudizi interiorizzati: nel definirmi drogata quanto stavo scherzando e quanto penso di finire dipendente da queste medicine?
Come al solito io non ho nessuna risposta, ipotizzo che quello che esprimo sia il pensiero di moltɜ e non tuttɜ siamo fortunatɜ da poterne parlare apertamente con chi ha vicino.
Il consenso è fondamentale e non è automatico, può non esserci tra genitori e figlɜ, tra marito e moglie, non è detto che se un legame è di sangue o una relazione amorosa allora vada tutto bene e tuttɜ possono dire tutto. Quando parlo di rete di supporto parlo di persone con cui si è instaurato un legame tale, al di là di parentele di nascita e acquisite, con cui ci si sente al sicuro, sempre.
L’autodeterminazione e il consenso sono gli argomenti al centro del dibattito pubblico quando si parla di aborto e violenza di genere, pensiamo sempre che siano argomenti a noi distanti, ma se ragioniamo bene sono fondamentali e presenti nella nostra quotidianità.
L’autodeterminazione e il consenso sono alla base di qualsiasi cura psichiatrica e psicologica, più ancora che in altre malattie: senza una partecipazione attiva del/la paziente, qualsiasi terapia sarà parzialmente o totalmente inefficace.
Chiudo ripetendo ancora una volta, e non smetterò mai, che non sono una medica, ma una paziente e che tutte le mie parole sono frutto della mia esperienza diretta e anche dei compiti che mi ha dato lo pischiatra: sto leggendo Manuale di psicoeducazione per il disturbo bipolare, un testo difficilissimo per ɜ non addettɜ ai lavori, ogni tre righe apro il vocabolario (un testo anche pieno di refusi che è una cosa che mi manda in botta, che fastidio!). Se riesco a finirlo ve ne parlo: non sono bipolare, ma parla dell’accettazione della malattia e insegna come conviverci.
Tra l’altro a proposito del concetto che le parole creano identità, sarebbe anche arrivato il momento di smetterla di utilizzare parole, che indicano patologie anche importanti, a sproposito, come bipolare e depressione. Ridare il giusto significato alle parole è importante sia per non svalutarle sia per non renderle etichette discriminanti.
(Di come sta andando la terapia ne scriverò come sempre appena metabolizzo tutto quello che mi sta succedendo, però i risultati si vedono questo lo spoilero subito.)
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